Der wald vor lauter bäumen - Maren Ade (2003)
“Der wald vor lauter bäumen”,
ovvero “La foresta per gli alberi”. Uno di quei titoli belli e preziosi, degni
d’essere indagati. In tedesco “non vedere la foresta per gli alberi” è
un’espressione idiomatica che significa smarrire la visione d’insieme, concentrandosi
troppo sui dettagli. Trovo significativo che il film si apra con il
trasferimento della protagonista in una nuova città: approdando nell’ignoto la
mente si fa selettiva, isola e focalizza quella porzione di realtà lasciando
fuori il resto. Una strategia della miopia che cova in sé il rischio della
disperazione. Sconforto, solitudine, inadeguatezza s’infiltrano ovunque, ma proliferano
nelle nicchie anguste, quelle che tanto spesso ci costruiamo quando siamo
impreparati, e spaventati. Così fa Melanie, che in più persevera in uno sguardo
dalla visuale “piccola”, su misura della percezione che ha di se stessa; sguardo
che ha poco a che fare col vedere, e molto invece col fissare, con lo spiare.
Spia ossessivamente, senza malizia, la
sua vicina di casa, Tina. Decide che ne deve diventare amica, a costo di
umiliazioni imbarazzanti, di violente effrazioni della propria natura. Da
insegnante si scontra con la cruda arguzia degli allievi più grandi, oltre che
con l’ostilità cameratesca dei colleghi. Se non che uno di loro intuisce il suo
malessere, perché lo conosce, perché lo ha vissuto. Ma Melanie non osa dirsi
che sta male, né se lo lascia dire. Preferisce chiudersi in bagno e lì consumare la fiamma
dell' abbandono. Allontana così un credibile amico, qualcuno che avrebbe
potuto trascinarla fuori dalla semicecità straziante. Isola la famiglia,
rinuncia alla possibilità di disintossicarsi dall’aria guasta, almeno per un
po’, di ricordarsi che esiste altro.
Satura il proprio ristretto universo di angoscia, allo stesso modo in cui stipa
l’auto con l’immondizia di Tina. Tutto accade in un incedere lacerante, tachicardico,
sferzato da un alito di incombente minaccia. Il suicidio è l’idea latente che assilla
lo spettatore, ancor più che la stessa protagonista. Quando in una scena
afferra con frustrazione un lungo filo elettrico, quello dell’aspirapolvere che di lì a poco passerà sul pavimento, ho avuto il sentore che ci si sarebbe
impiccata. E’ un personaggio lancinante Melanie, pedinato con vicinanza non
connivente, con implacabilità non sadica. Maren Ade riabita con noi il suo
racconto di dolore, sino all’ultima immagine, in un’espressione di premurosa
lealtà che mi ha profondamente commosso. Senza conforto, senza abisso, nel finale ci stacchiamo dal film quasi volando. Porto la mano alla bocca, senza
respirare, mentre vedo Melanie che lascia il volante dell’auto e si sposta sul
sedile posteriore, inscenando un incubo terribilmente banale. Capisco che non
ci sarà schianto, allora mi rilasso. Melanie abbassa il finestrino e vi si appoggia,
di nuovo bambina senza un pensiero al mondo. Fuori la luce compare e scompare
tra le fronde, alberi si addossano l’uno all’altro nella carrellata visiva
della corsa. E' la foresta.
(marzo 2017)
(marzo 2017)
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