Fiore di carne - Paul Verhoeven (1973)




Lungo una buona prima parte mi diverto da morire, avverto appena i sintomi del dramma. C’è una storia che so finirà male, ma ancora non me ne preoccupo. Vedo due giovani amanti fuori di testa, di teste, teste con bellissimi capelli. Vedo il loro amore menefreghista, imbarazzante, irriguardoso. Corpi che non conoscono freni inibitori, che si sbattono e se ne sbattono. Domicilio in uno stanzone a immagine e somiglianza della loro nulla creanza, teatro aperto ad una felice iperattività. Elementi di disturbo campanello e telefono, ambasciatori di convenzionalità borghesi, ingerenze parentali, annunci di morte. La morte, ecco, fa capolino più e più volte, attraverso una sensazione costantemente stuzzicata: il disgusto. Muffa, vermi, merda, piscio, vomito. Non manca proprio niente. Il che parrebbe cavalcare, in superficie, una sorta di sarcasmo greggio. Ma al di sotto è un alito di nero imminente.  Si prenda da esempio la scena delle feci rosse. Lei va in bagno e crede di perdere sangue, urla spaventata convinta d’avere una malattia orribile. Lui, innamorato, niente affatto sofistico, analizza gli escrementi e le ricorda la cena a base di barbabietole della sera prima. Un siparietto apparentemente innocuo, che un po’ fa schifo, un po’ fa ridere; più tardi fa anche pensare. Quando le cose, davvero, si mettono male, capisci che anche quella cagata fungeva da segno.
Difficilmente dimenticherò il momento in cui lei viene a sapere della malattia paterna, stesa sul letto, con dei fiori sui seni scoperti. Nello scrollarseli di dosso scopre che erano in via di marcescenza, già covo di vermi. Lui li aveva rubati da qualche parte, al di là di un cespuglio, magari in un cimitero. E’ un’immagine di inattesa raffinatezza, presagio di un lento discendere. Controtendenza malinconica il volo libero di quel gabbiano, ferito e poi tornato alla vita.

Pur nel tradimento del titolo originale ("Turks fruit"), che nella storia ha un preciso riscontro, il titolo italiano rende bene la precarietà della gioia, la vulnerabilità floreale della bellezza. Una bellezza, quella di lei così bambina, che lui non smette mai di contemplare. Neanche quando, caduto ogni petalo, non resta che la carne.


(novembre 2015)

Commenti

  1. Al solito, bellissimo pezzo. Che te lo dico a fare. Per me, capolavoro. Un melò immerso nella merda, così come non poteva fare il vecchio "Love Story", ma sono due opposti che si attraggono. Almeno per me, mi piacciono molto entrambi. L'Olandese è un gigante, l'unico che è riuscito a fare quello che cazzo voleva (più o meno) ad Hollywood. E infatti l'hanno ostracizzato. Ritorna alla merda anche in "Black Book", ma in modo più feroce e umiliante. Ciao Chiara!!!

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  2. Vero hai ragione, questo e "Love story" sono due opposti che si attraggono. Sai io neanche sospettavo l'esistenza di un film così nella filmografia di Verhoheven, l'ho recuperato grazie alla dritta di un amico, e m'è piaciuto tantissimo. Mi procuro senz'altro "Black Book", grazie come sempre Belushi, sei prezioso ;)
    Ho visto poi The canal, che ho trovato ben fatto ma non entusiasmante, e proprio ieri sera, pensa, "The little girl down the lane", la cui locandina nel tuo blog m'aveva tanto affascinato. Jodie Foster, già da giovanissima, sapeva essere presenza compassata e insieme elettrica, con quel suo viso docile eppure conturbante. Mi sembra che all'incirca dopo "Il silenzio degli innocenti", che io amo molto, abbiano cominciato ad appiopparle ruoli via via più triti (magari con qualche eccezione che ora non mi viene in mente), è un peccato.
    Ciao!!

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  3. Chiara, quel film è per me un capolavoro. Credo, quasi irripetibile, per come è cambiato il cinema nord americano in questi ultimi cinque/dieci anni. Lei è splendida, mi è sempre piaciuta molto, soprattutto nelle interpretazioni da "bambina", anche in "Foxes", "Casotto" e "Carny", che io trovo molto bello, pur non essendo un capolavoro. Anche a me piace moltissimo "Il Silenzio...", regia "geometrica", perfetta, di Demme, tanto da non sfigurare per nulla con il suo predecessore "apocrifo", l'inarrivabile "Manhunter" di Mann. Non è poco. E' vero, dopo la Foster si è adagiata sulla sdraio da Diva ormai intoccabile e riconosciuta (vedi l'insopportabile "Nell") però il suo primo film da regista, quello con il bambino prodigio, mi è sempre piaciuto. Ciao Chiara!!!

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